DISCLAIMER!
Questo articolo è decisamente fuori format e per questo è rimasto in bozze per un buon mesetto. Non è una recensione né un’intervista, ma è semplicemente una RIFLESSIONE, “soggettivamente mia” ma non personalmente identificativa (- per questo appunto mi avvalgo della facoltà di usare la licenza poetica). Quindi, proprio come questo disclaimer, l’articolo probabilmente non vi apparirà chiaro e non lo capirete, vi chiederete dove voglio arrivare (giuro, nowhere) e vi causerà una emicrania da stress postcazzata. Ho solo due motivazioni che mi hanno portato a scrivere questo articolo: 1. Sfidare me stessa a traslare i miei pensieri; 2. Spiegarvi perché credo che tutto il tempo datoci in questa quarantena sia per me un privilegio.
La società scorre imperterrita ad un ritmo frenetico e irragionevole. Forse oggi più di ieri. Siamo bombardati da informazioni, da aspettative, da “dover fare tutto in tempo” e dall’essere in tempo. Viviamo in un limbo in cui il presente è già passato e il futuro è imminente. Ci tocca quindi correre e affannarci, sempre più, per poi dimenticarci anche dove stiamo andando e da dove siamo partiti.
FERMARSI
L’isolamento sociale (–forzato), a cui siamo stati sottoposti nelle ultime settimane, ha fermato tutto. Non solo mezzi di trasporto e luoghi, ma soprattutto le nostre vite. Ha fermato noi. Fermarsi è stato per noi perdersi.
Non è un segreto che questo lockdown è stato affrontato in malo modo dalla maggior parte delle persone nel mondo. Ansia, stress, paura e depressione sono tutti sentimenti che inconsciamente hanno preso il sopravvento, diventando i peggiori coinquilini con cui siamo stati costretti a restare in casa. Ci è bastato dover restare da soli con noi stessi per sentirci persi.
Viviamo in maniera così frenetica che una pausa di riflessione con noi stessi è blasfemia. Forse siamo abituati a credere che sedersi a riflettere, comprendere, soffermarsi sulle cose sia tempo perso, perché per valerne del nostro tempo il risultato finale deve essere tangibile. Certo è che fermare la nave in mezzo al mare e perdere la rotta non ci dovrebbe spaventare. Basterebbe crearci una nuova rotta e ripartire. In un modo o nell’altro, si riparte comunque sempre.
(AF)FIDARSI
Ci siamo fossilizzati (- letteralmente) così tanto sugli aspetti negativi della quarantena che abbiamo completamente trascurato le migliaia di opportunità che ci stava offrendo. Prima fra tutte, l’opportunità di poterci dedicare del tempo, del fare qualcosa per noi stessi e anche del non fare esattamente nulla, perché no?!
Allenarsi alla solitudine per donarsi consapevolezza e autoconoscenza. Rivalutare le nostre priorità, le nostre scelte, il nostro posto nel mondo. Risolvere i conti in sospeso con noi stessi e chiudere capitoli del passato che non avevamo il coraggio di chiudere. Sperimentare cose nuove, lasciarsi andare emotivamente e fidarsi di ciò che si prova. E, soprattutto, imparare a conoscere il mondo che ognuno di noi si porta dentro, con annesso caos.
Attivarsi all’ascolto di noi stessi, di chi siamo, cosa proviamo e cosa vogliamo realmente è doloroso. Non tutti sono pronti ad accettare il proprio bagaglio di vita e non tutto è facile da accettare. Ma è necessario. È necessario perdersi per ritrovarsi, conoscersi per accettarsi, accettarsi per migliorarsi.
ESSERE
Zygmunt Bauman ha definito la nostra società come la modernità liquida.
“Il vero problema dell’attuale stato della nostra civiltà è che abbiamo smesso di farci delle domande. – L’introspezione è un’attività che sta scomparendo. Sempre più persone, quando si trovano a fronteggiare momenti di solitudine nella propria auto, per strada o alla cassa del supermercato, invece di raccogliere i pensieri controllano se ci sono messaggi sul cellulare per avere qualche brandello di evidenza che dimostri loro che qualcuno, da qualche parte, forse li vuole o ha bisogno di loro.”
In questi giorni abbiamo sostituito l’orario di lavoro e le uscite con gli amici con ore ed ore spese online e video call interminabili. L’esigenza di restare collegati è stata ancora più forte di quanto già lo fosse prima dell’isolamento. Eppure continuiamo a sentirci soli e distanti da tutti. Cosa ci dà realmente angoscia: il sentirci soli o il restare soli (con noi stessi)?
Oggi noi esistiamo se siamo su Instagram o su Tiktok, siamo boomer se abbiamo solo Facebook o Twitter e siamo nessuno se non siamo reperibili in nessun social sopraelencato. Il desiderio sfrenato di apparire a tutti costi non ha solo causato una crisi dei valori, ma anche una crisi di identità. Tutto questo ci ricorda quanto la nostra società sia più concentrata sull’apparire che sull’essere. Un’amara verità che è più facile ignorare che ammettere, soprattutto quando si realizza che non ne siamo vittime ma ingenui complici. Lavorare su noi stessi ed imparare ad ascoltarci può quindi portarci ad una solidificazione? Può portarci ad un ritorno dell’essere?
Fermarsi, (af)fidarsi ed essere, per quanto complesso sia, è ciò che ci rende essenzialmente umani. La pandemia finirà prima o poi e sicuramente, nel bene o nel male, ognuno di noi avrà con sé il segno indelebile di questo isolamento. Per fortuna però, se nel bene o nel male, lo decidiamo noi.
Tutte le foto presenti in questo articolo sono state realizzate da PH Giovanna Capone. Per reference: Instagram words_left e Flickr